N. Valsangiacomo: Dietro al microfono

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Title
Dietro al microfono. Intellettuali italiani alla Radio svizzera (1930-1980).


Author(s)
Valsangiacomo, Nelly
Published
Bellizona 2015: Edizioni Casagrande
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Paolo Di Stefano

È un importante quadro storico di un’azienda pubblica, ma è soprattutto una storia culturale, di relazioni umane e di idee, quella che Nelly Valsangiacomo ricostruisce e racconta in questo libro. Ed è una storia culturale per tanti versi sorprendente, essendo basata su documenti sonori dimenticati e su documenti scritti in buona parte inediti.

L’arco temporale conosce alcuni passaggi cruciali del giornalismo in specie culturale: dalla divulgazione formativa all’informazione, dallo specialismo elitario all’opinionismo e all’intrattenimento, dal contributo critico meditato al dialogo improvvisato. Sono cinque decenni che Valsangiacomo divide in tre fasi corrispondenti ad altrettante parti del suo libro: le origini di Radio Monte Ceneri, fondata nel 1933 e subito costretta a confrontarsi con il fascismo e poi con il secondo conflitto mondiale; i nuovi parametri della comunicazione negli anni d’oro del consolidamento, dai Cinquanta ai Sessanta; il trionfo dell’attualità e del dibattito in coincidenza con quella che un direttore della RSI, Stelio Molo, ha chiamato la «cultura interrogativa».

In principio fu Benedetto Croce, opportunamente evocato nell’Introduzione come l’intellettuale-simbolo che nell’ottobre 1936 intervenne negli studi radiofonici con una conferenza di quindici minuti sul rapporto tra vite romanzate e romanzo storico: fu quello in assoluto il debutto radiofonico del filosofo napoletano. Una fotografia inserita nel capitolo sugli esordi ritrae don Benedetto, accolto negli studi di Radio Monte Ceneri, sorridente mentre solleva il berretto in cenno di saluto: sulla sinistra Delio Tessa, che vediamo di spalle nel suo paletot, aspetta a sua volta di dare il benvenuto all’illustre ospite. Era stato il poeta milanese, che con Guido Calgari fu il primo organizzatore culturale della RSI, a sollecitare quell’incontro destinato a rimanere memorabile come «nucleodi una memoria antifascista della stessa radio, memoria rafforzata anche dai cenni presenti nella storiografia»: non è un caso, ricorda l’autrice, se la conferenza di Croce è tra i pochi documenti sonori superstiti di quel periodo. Agli ascoltatori che volessero leggere quel discorso, l’«Organo della Società Svizzera di Radiodiffusione» offriva il testo integrale. Si tratta del settimanale «Radioprogramma», vademecum della programmazione, strumento rassicurante per un pubblico che diffidava della novità sonora: documento, infine, molto utile alla ricerca storica anche perché, soprattutto nei primi due decenni, contiene importanti dichiarazioni di intenti sulle scelte adottate e sulle strategie perseguite nei momenti più delicati per un organo di frontiera diviso tra il mondo culturale italiano e quello politico svizzero.

In veste di funzionario culturale della Radio svizzera, Tessa si presenta come personalità capace di muoversi su vari fronti: pur non essendo ignota la sua collaborazione, con l’indagine di Valsangiacomo il suo ruolo interno assume un rilievo più nitido e articolato, al punto da potersi individuare, agli esordi della RSI, una vera e propria «epoca Tessa» che si chiude nel 1939. Il poeta contribuì alle dizioni e agli adattamenti, approntò le rievocazioni di processi celebri e di opere liriche, si impegnò nella redazione del «Radioprogramma», dove si presentavano personaggi e rubriche (va segnalato che la raccolta La rava e la fava. 50 prose disperse, edita da Giampiero Casagrande nel 2014 a cura di Mauro Novelli, ha recuperato alcuni scritti tessiani usciti nel periodico della RSI). Ma Tessa ebbe una
funzione notevole come mediatore tra Radio Monte Ceneri e gli intellettuali italiani: fu lui a invitare, oltre al Croce, personaggi del calibro di Arnoldo Mondadori, Trilussa e Arturo Toscanini. Come sarebbe stato per tanti intellettuali italiani del dopoguerra anche al di là dei ricorrenti stereotipi sulla civiltà elvetica in contrasto con la presunta speculare “inciviltà” italica, Tessa «era felice quando poteva partire per la Svizzera» (è la testimonianza dell’amico Carlo Linati). A Lugano raggiungeva la sede della radio, ritrovava alcuni amici, collaborava ai quotidiani cantonali («Corriere del Ticino» in primis), senza per altro smentire la sua tempra politica di antifascista ipercauto ed essenzialmente accomodante: «Una convivenza consapevole e dichiarata con il fascismo la sua, condivisa da molti altri letterati», scrive la Valsangiacomo. Del resto, allo stesso Tessa si devono inviti allargati a membri della fascista Accademia d’Italia.

Non può stupire che la prima parte dello studio si concentri parecchio sul complesso rapporto con il fascismo, considerato che, estendendosi il segnale della RSI ad alcune regioni dell’Italia del Nord, il suo era un uditorio transfrontaliero, ciò che sollecitava l’attenzione e il controllo delle autorità mussoliniane. Sono elementi che spiegano la situazione “critica” di una emittente «rappresentante della terza Svizzera e intenzionata a essere una radio democratica in contrapposizione a ciò che accadeva in altri paesi, nei quali la radiofonia era “monopolio esclusivo di plutocrazie, di governi, di dittature e strumento di dominio e asservimento”, per sopravvivere doveva tuttavia rivolgersi a un mondo culturale che stava subendo le pressioni di un regime autoritario, al quale a volte dimostrava il suo sostegno». Contorsioni non facili, complicate dall’emergente clima di «difesa nazionale spirituale» imposto dal governo federale anche attraverso il controllo militare che, particolarmente nel periodo bellico, si appuntava sugli aspetti legati all’attualità politica, rigorosamente rimasta confinata entro i bollettini ufficiali dell’ATS a tutela della neutralità.

È vero che la presenza italiana, ampia e varia, non era comunque «ascrivibile a personalità critiche nei confronti del regime», ma al netto di questa ambivalenza, simmetrica a quella che vigeva nel mondo culturale d’oltre confine, la radio di Lugano si sarebbe meritata, nel dopoguerra, un’aura di prestigio e di apertura che molto doveva all’Italia: «C’è da domandarsi – avrebbe detto nel 1997 un ‘veterano della radio’ come Eros Bellinelli – fino a che punto furono gli stranieri a creare il mito di Radio Monte Ceneri come simbolo di libertà e di democrazia».

Di notevole interesse è il quadro variegato dei generi giornalistici o paragiornalistici adottati anche in funzione delle opportunità politiche e dei mutamenti sociali. Se nelle Terze pagine dei quotidiani italiani del ventennio fascista trionfava un elzevirismo divagante di stampo vociano oltre agli articoli-reportage in omaggio al colonialismo o alla cultura autarchica di stampo patriottico collocati di spalla, le formule studiate dalla radio svizzera erano poco meno evasive, in obbedienza alla distinzione dichiarata tra politica e cultura: «Evadere dal presente, per forza di volontà, un’ora al giorno almeno, appena il dovere lo concede. Non lasciare che la guerra occupi ogni cellula del nostro cervello…», era il principio enunciato nel 1940 sul «Radioprogramma».

L’indagine storica di Valsangiacomo è soste nuta e integrata da serie coordinate di tipo teorico. Da una parte vengono illustrati i fermenti e le discussioni dell’immediato dopoguerra, il dinamismo culturale che mette a frutto i rapporti stabiliti negli anni più oscuri: la Ghilda del libro ha tra i primi relatori a Lugano, nel 1946, Capitini e Vittorini; il Premio «Libera Stampa» è il momento di massima empatia tra gli intellettuali ticinesi (Bellinelli, Piero Bianconi, Piero Pellegrini, Pietro Salati) e gli italiani (Carlo Bo, Aldo Borlenghi, Giansiro Ferrata e Gianfranco Contini sono della giuria). Dall’altra trovano spazio alcune considerazioni sui «nuovi parametri radiofonici» che nascono da cambiamenti anche tecnologici capaci di aprire diverse soluzioni formali e sperimentali. In particolare, la forma monologica tende a cedere il passo al dialogo e a un parlato più informale a vantaggio di quella che veniva affermandosi come l’informazione o attualità culturale. In coincidenza con queste innovazioni svettano alcuni protagonisti del cambiamento che sapevamo in altre faccende affaccendati, dal pittore Felice Filippini allo scrittore Piero Bianconi, a Bixio Candolfi, che dal cinema va orientando i suoi interessi professionali verso la radio e la televisione risultando determinante per molte iniziative, come La costa dei Barbari, longeva rubrica nata nel 1959 che rivela la sistematica volontà di migliorare le conoscenze della lingua per una minoranza linguistica che sentiva minacciata dal Nord la propria “identità” culturale. Bastino le collaborazioni di tre maestri della linguistica e della storia della lingua, come Giacomo Devoto, Bruno Migliorini e Tullio De Mauro, a segnalare l’importanza che la RSI riservava a questi temi. Ma è sull’intero fronte soprattutto letterario che le presenze italiane garantiscono qualità ed efficacia. Un indice dei nomi (che purtroppo manca dal volume) darebbe conto a colpo d’occhio dell’eccellenza delle personalità che frequentarono non occasionalmente l’emittente luganese a vario titolo: dal critico teatrale Silvio D’Amico allo slavista Ettore Lo Gatto, dal filosofo Enzo Paci ai numerosi poeti (Giuseppe Ungaretti, Vittorio Sereni, Diego Valeri, Roberto Rebora), dallo storico dell’arte Roberto Longhi a Riccardo Bacchelli, Eugenio Garin, Luigi Russo, Mario Apollonio, Orio Vergani, Giacinto Spagnoletti, Mario Praz. «Abbiamo sempre cercato di avere il più grande specialista in ogni materia», avrebbe dichiarato Candolfi, intendendo per «ogni materia» le discipline di area essenzialmente umanistica. A ricostruire la rete di collaborazioni e di amicizie contribuiscono, nell’analisi di Valsangiacomo, le segnalazioni e le informative aziendali interne (preziose le carte depositate nel fondo Filippini) ma anche i carteggi privati, come quello dello stesso Candolfi. Dimostrando per altro come i rapporti professionali fossero spesso alimentati dalle relazioni di familiarità amicale e viceversa. Piace ricordare, in tal senso, che la casa di Alberto Canetta, responsabile del settore prosa della RSI, tra anni Settanta e Ottanta era diventata un vero e proprio cenacolo, anche conviviale, non solo di attori e registi, ma anche di letterati e studiosi in cui svettava la presenza assidua del germanista Italo Alighiero Chiusano e dell’anglista Roberto Sanesi, cui si devono traduzioni e adattamenti di gran pregio realizzati ad hoc per la RSI (sulla ricca e intensa attività di Canetta è imprescindibile lo studio di Pierre Lepori L’attraversata del teatro, Casagrande 2007).

Transitando verso gli anni del boom economico, quando comincia ad affermarsi la televisione, l’idea della radio come università popolare che aveva imposto corsi formativi disciplinari tenuti soprattutto da accademici e come istituzione pedagogica (con programmi per l’infanzia, per le donne, per i lavoratori e così via) cede progressivamente il passo alla “radio informatrice”. Il che comporta una forte iniezione di giornalisti e una simmetrica diminuzione di “specialisti”, un mutamento di forme, di stili, di linguaggio. Va ricordato, a onor del vero, che nei giornali italiani questo complessivo rinnovamento che ha investito anche le altre emittenti radiofoniche europee è avvenuto molto più lentamente arrivando a compimento nei primi anni Novanta, quando la tradizione della Terza pagina, con i suoi pregi e i suoi difetti, era ormai logorata. Si pensi all’ampio uso del macrogenere dell’intervista, cui Valsangiacomo dedica opportunamente un capitolo del suo libro, distinguendo tra le molteplici varietà possibili della forma dialogica: intervista-consultazione, intervistaritratto, intervista-informazione, intervista aperta, intervista chiusa… Per paradosso, proprio sotto la testata rassicurante di Terza pagina, che evocava la cultura giornalistica più codificata, nel 1962 viene inaugurata una rubrica-contenitore settimanale che si presenta programmaticamente come consapevole momento spartiacque tra un prima e un poi: «In più, vorremmo che la “Terza pagina” fosse veramente giornalistica, e cioè estranea a qualsiasi pedanteria di tono specialistico…».

Lo spostamento sempre più deciso verso l’attualità è storia quasi recente, almeno quanto l’abbandono degli stereotipi di genere al cospetto del microfono radiofonico. Ecco la “postura intellettuale” della fase in cui, a cavallo degli anni Settanta, «la struttura più libera delle interviste permise di evidenziare il ruolo sociale del letterato e si cominciò ad avvertire il crescente valore simbolico della partecipazione ai media e all’industria culturale rispetto ad altri luoghi della cultura quali le accademie». Salgono sulla scena i nomi di scrittori italiani, tutti in vario grado coinvolti nella e/o dalla RSI, che in quanto engagé come cittadini sono dunque autorizzati (da se stessi prima ancora che dalla società) a parlare del presente sconfinando nella politica: Piovene, Prezzolini, Moravia, Fortini, Eco, Cases… È inevitabile che a un certo punto l’analisi di Valsangiacomo vada a incrociarsi con quella magistralmente condotta, quasi tre decenni fa, da Fabio Soldini con Negli Svizzeri (Marsilio 1991), la rassegna critica che dava conto dell’immagine della Svizzera e degli svizzeri nella letteratura italiana.

I mutamenti mediatici avrebbero portato ben presto alla emersione di una figura nuova, il giornalista in veste di intellettuale (significativa la presenza di Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari), sempre pronto a elargire pareri sull’attualità politica e socio-culturale, esportando in Svizzera le tensioni del dibattito pubblico che si svolgeva in Italia negli anni “caldi”: non senza qualche conseguenza polemica alimentata dagli ambienti conservatori sul colore politico di certi interventi tacciati di propaganda filocomunista. Siamo, appunto, alla «cultura interrogativa» che segna il superamento delle intenzioni divulgative o didattiche a vantaggio di una prospettiva nettamente opinionistica. La personalità interna che meglio rappresenta questo passaggio è quella di Giulio Villa Santa, cui si deve una rubrica intitolata non a caso Opinioni attorno a un tema, destinata a durare dal 1969 al 1980 (rimangono memorabili gli incontri con Ennio Flaiano e con Eugenio Montale). Il passaggio da logos a pathos, cioè da una comunicazione razionale, con funzione didattica e formativa, a una comunicazione più immediata ed emotiva è ancora in corso, senza ripensamenti significativi: l’intrattenimento televisivo ha trascinato con sé non solo la radio, ma anche i giornali, che specie in campo culturale hanno sempre più abbandonato le ambizioni critiche per assecondare gli umori dell’industria culturale e le richieste del pubblico e del mercato. Non è escluso però che con le derive dell’informazione digitale cui stiamo drammaticamente assistendo sia arrivato il momento, specie per il servizio pubblico, di rilanciare il proprio ruolo di garanzia, di qualità e di selezione vitale per la democrazia. E anche in questa chiave la lettura del libro di Nelly Valsangiacomo risulta particolarmente opportuna e preziosa.

Zitierweise:
Di Stefano, Paolo: Rezension zu: Valsangiacomo, Nelly: Dietro al microfono. Intellettuali italiani alla Radio svizzera (1930-1980) Bellinzona 2015. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2018, Vol. 163, pagine 159-162.

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Archivio Storico Ticinese, 2018, Vol. 163, pagine 159-162.

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